mercoledì 31 luglio 2019

La scoperta di Jorzi


Jorzi avvistò il corpo in mezzo agli oleandri ancora fioriti, mentre all'alba andava a controllare se i pesci si erano degnati di abboccare ai suoi rudimentali ami, attaccati ad una vecchia cordicella lanciata dentro una pozza stagnante del fiume. Si spaventò talmente che temette di morire e provò a gridare, forse per svegliare il cadavere o forse per allontanare da sé le panas che lo volevano prendere. Nessun suono uscì dalla sua gola ma cominciò a correre per tornare velocemente alla villa di Torpee de S'Iscra de Garteddi dove c'erano i suoi genitori che potevano salvarlo.

Correndo come un disperato si stracciò i poveri panni trattenuti dagli arbusti di piracanta, si ferì i piedi ma niente poteva trattenerlo: la paura era più grande del dolore e del freddo in quella gelida mattina di dicembre. Torpee era presso l'ultima grande ansa del fiume che altre volte, prima di quel punto, tornava indietro, quasi indeciso se proseguire verso il mare. Per questo quella vasta zona era chiamata il Salt de Jurifai e partiva dal mare di Uruse (Orosei) spingendosi verso il sud oltre le falesie di Portu Nonu di San Giovanni su Lillu (CalaGonone) e all'interno sulle montagne sopra Loy (Lollove) fino ai confine del Goceano, nel giudicato di Torres.

Fu vicino al paese che il suono della sua voce cominciò ad uscire dalla gola, svegliando gli abitanti delle prime case che si affacciarono ancora assonnati ai pertugi che chiamavano porte e finestre. La capanna della sua famiglia era alla fine di una strada dissestata e maleodorante che percorreva tutta la villa, e Jorzi non rallentò fino a quando non l'avvistò nel tenue chiarore dell'alba.

La madre fu la prima ad affacciarsi ed appena vide il suo bambino correre disperato aprì le braccia per accoglierlo e metterlo in salvo. Non si era accorta che Jorzi fosse uscito, ma il figliolo sempre affamato ed un po’ vagabondo si allontanava spesso nel cuore della notte, per andare a controllare i suoi ami al fiume o le trappole per i conigli nella boscaglia. Le si stringeva il cuore a saperlo là fuori in mezzo a chissà quali pericoli, ma Jorzi era abile a schivare le minacce ed anche a procacciare cibo tanto per sé che per i suoi cari. Si era costruito anche un rudimentale arco con i rami del tasso (che flettevano meglio degli altri) aiutato dal nonno che gli insegnò a preparare anche le frecce appuntite ricavate dall'albero del pero, che intingeva nel succo della lue pestata.

Jorzi correndo sembrò quasi entrare nel corpo della madre, come se volesse tornare al momento antecedente al parto: mai la donna lo aveva visto così spaventato e tremante con il cuore che, battendo veloce, sollevava le povere coste che segnavano quel torace nodoso da bambino denutrito.

Ormai tutta la villa si era svegliata per il latrato dei cani spaventati dalle urla, e a loro si erano uniti i chicchirichi dei galli e i ragli degli asinelli alla corda dentro i cortili. Il babbo lo strappò quasi alle braccia della madre, e cercando di calmarlo gli chiese cosa fosse successo di così grave da allertare tuta la villa.

"È morto, è morto" riuscì a dire Jorzi, prima di accasciarsi stremato. Arrivarono dunque le guardie del vecchio spilorcio, che comandava con la sua cattiveria e con le sue ricchezze tutti i dintorni. Allertati dalle urla avevano cercato di svegliare il padrone bussando alla sua porta, e non avendo avuto risposta si precipitarono per strada. Il padre del ragazzino munse in fretta la capretta che belava impaziente, e dopo aver rifocillato Jorzi richiese il motivo del suo comportamento.

Forse le braccia della madre, forse il latte caldo appena munto o la presenza del padre, uomo forte e coraggioso, diedero al bambino la forza di spiegare che vicino all'ansa del fiume Caedris (Cedrino) vi era il corpo di un uomo morto, che non aveva riconosciuto temendo di avvicinarsi troppo.

Brano tratto da “Storie nei castelli di Sardegna” di Franca Carboni.


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