Jorzi avvistò il corpo in mezzo agli
oleandri ancora fioriti, mentre all'alba andava a controllare se i pesci si
erano degnati di abboccare ai suoi rudimentali ami, attaccati ad una vecchia
cordicella lanciata dentro una pozza stagnante del fiume. Si spaventò talmente
che temette di morire e provò a gridare, forse per svegliare il cadavere o forse
per allontanare da sé le panas che lo volevano prendere. Nessun suono uscì
dalla sua gola ma cominciò a correre per tornare velocemente alla villa di
Torpee de S'Iscra de Garteddi dove c'erano i suoi genitori che potevano
salvarlo.
Correndo come un disperato si
stracciò i poveri panni trattenuti dagli arbusti di piracanta, si ferì i piedi
ma niente poteva trattenerlo: la paura era più grande del dolore e del freddo
in quella gelida mattina di dicembre. Torpee era presso l'ultima grande ansa
del fiume che altre volte, prima di quel punto, tornava indietro, quasi
indeciso se proseguire verso il mare. Per questo quella vasta zona era chiamata
il Salt de Jurifai e partiva dal mare di Uruse (Orosei) spingendosi verso il
sud oltre le falesie di Portu Nonu di San Giovanni su Lillu (CalaGonone) e
all'interno sulle montagne sopra Loy (Lollove) fino ai confine del Goceano, nel
giudicato di Torres.
Fu vicino al paese che il suono della
sua voce cominciò ad uscire dalla gola, svegliando gli abitanti delle prime
case che si affacciarono ancora assonnati ai pertugi che chiamavano porte e
finestre. La capanna della sua famiglia era alla fine di una strada dissestata
e maleodorante che percorreva tutta la villa, e Jorzi non rallentò fino a
quando non l'avvistò nel tenue chiarore dell'alba.
La madre fu la prima ad affacciarsi
ed appena vide il suo bambino correre disperato aprì le braccia per accoglierlo
e metterlo in salvo. Non si era accorta che Jorzi fosse uscito, ma il figliolo
sempre affamato ed un po’ vagabondo si allontanava spesso nel cuore della
notte, per andare a controllare i suoi ami al fiume o le trappole per i conigli
nella boscaglia. Le si stringeva il cuore a saperlo là fuori in mezzo a chissà
quali pericoli, ma Jorzi era abile a schivare le minacce ed anche a procacciare
cibo tanto per sé che per i suoi cari. Si era costruito anche un rudimentale
arco con i rami del tasso (che flettevano meglio degli altri) aiutato dal nonno
che gli insegnò a preparare anche le frecce appuntite ricavate dall'albero del
pero, che intingeva nel succo della lue pestata.
Jorzi correndo sembrò quasi entrare
nel corpo della madre, come se volesse tornare al momento antecedente al parto:
mai la donna lo aveva visto così spaventato e tremante con il cuore che,
battendo veloce, sollevava le povere coste che segnavano quel torace nodoso da
bambino denutrito.
Ormai tutta la villa si era svegliata
per il latrato dei cani spaventati dalle urla, e a loro si erano uniti i chicchirichi dei galli e i ragli degli
asinelli alla corda dentro i cortili. Il babbo lo strappò quasi alle braccia
della madre, e cercando di calmarlo gli chiese cosa fosse successo di così
grave da allertare tuta la villa.
"È morto, è morto" riuscì a
dire Jorzi, prima di accasciarsi stremato. Arrivarono dunque le guardie del
vecchio spilorcio, che comandava con la sua cattiveria e con le sue ricchezze
tutti i dintorni. Allertati dalle urla avevano cercato di svegliare il padrone
bussando alla sua porta, e non avendo avuto risposta si precipitarono per
strada. Il padre del ragazzino munse in fretta la capretta che belava
impaziente, e dopo aver rifocillato Jorzi richiese il motivo del suo
comportamento.
Forse le braccia della madre, forse
il latte caldo appena munto o la presenza del padre, uomo forte e coraggioso,
diedero al bambino la forza di spiegare che vicino all'ansa del fiume Caedris (Cedrino)
vi era il corpo di un uomo morto, che non aveva riconosciuto temendo di
avvicinarsi troppo.
Brano
tratto da “Storie nei castelli di Sardegna” di Franca Carboni.
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