L'autunno era stato dolcissimo, caldo
ma ventilato, la corte di Lamberto Visconti ed Elena de Lacon Gunale aveva
soggiornato al Castello di Posada e poi, ai primi di dicembre, era ritornata a
Civita. Un piccolo brivido aveva assalito Elena al ritorno nei luoghi dove si
era consumato il dramma di Dilicha, subito superato dalla vista di quei posti
bellissimi e tanto amati. Ubaldo non aveva ancora compiuto l'anno ma era forte
e vigoroso, cominciava a tentare sempre più spesso di sorreggersi sulle proprie
gambe e si lanciava in avanti sulla sabbia di Pittulongu cercando il suo
baricentro per procedere impavido verso la conquista dei primi passi. Le
numerose cadute attutite dalla sabbia non lo frenavano a testimonianza del suo
carattere indomito e avventuroso. Raramente piangeva e solo per un motivo
valido.
Elena e Lamberto ne erano fieri e
ognuno, a modo suo, sognava per lui un futuro radioso. Elena pregustava un
lungo soggiorno a Civita desiderando che il bambino si innamorasse del suo mare
per correre con lui sulla spiaggia e giocare insieme fino a sfinirsi. Quando
erano partiti da Civita, l'anno prima, l'odiata balia era stata sostituita da
due caprette e un'asina che pascevano nei prati succulenti intorno a
Luogosanto. Il loro latte aveva lenito la ferita di Elena che non aveva potuto
allattare il bambino per colpa della perfida Tilica e dato a Ubaldo vigore e
salute. La malefica donna ed il Gallo dai capelli rossi erano stati processati
e condannati per stregoneria, invero erano responsabili anche della morte della
povera fanciulla ma non avevano commesso materialmente il delitto e la loro
punizione era stata l'allontanamento dalla corte verso un monastero sperduto
nel nord della Sardegna con l'obbligo di rendere i servigi ai frati che a loro
volta avevano il compito di redimerli.
A dicembre,
poco prima del santo Natale, il mondo si rannuvolò, non vi furono quelle
giornate assolate, seppur fredde, che lasciavano spazio a passeggiate all'aria
aperta e a gite al mare. Cominciarono le piogge fittissime con venti furibondi
che facevano tremare il palazzo, tuoni e lampi squarciavano la serenità non
solo delle donne della corte ma anche degli impavidi cavalieri spesso
disarcionati dai cavalli terrorizzati durante questi continui ed interminabili
finimondi. Nulla era più asciutto dopo giorni e giorni di pioggia, l'umido
faceva tossire l'intera corte costretta al buio delle stanze e avvelenata dal
fumo dei camini che non riuscivano a dissipare le esalazioni della legna
fradicia.
Brano
tratto da “Storie nei castelli di Sardegna” di Franca Carboni.
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